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Batteristi svizzeri
di Romano Nardelli e Aldo Sandmeier
Il jazz svizzero: i batteristi
L'idea di questo lavoro è nata utilizzando la banca dati dell'archivio della Fonoteca nazionale svizzera e d'altre istituzioni. È risaputo che la Svizzera conta ancor oggi parecchi gruppi di pifferi e tamburi, tra i quali spiccano quelli di Basilea e del suo carnevale, capaci di suscitare interesse ed ammirazione in tutto il mondo, e non a caso anche tra i batteristi di jazz. Parlando di jazz, ecco affacciarsi una nutrita schiera di batteristi e percussionisti svizzeri che hanno raccolto e raccolgono tuttora alta considerazione pure all'estero. Nonostante la ricchezza e la varietà di questo capitale, si nota che, a differenza di altri strumenti, davvero poco è stato detto sulla batteria ed i relativi interpreti del nostro paese.
Stadttheater Basilea, 22 giugno 1967
Il basilese George Gruntz, pianista, compositore ed arrangiatore, diresse un concerto fondato sull'incontro tra il jazz e il folklore della sua città. Sul palcoscenico, da una parte Franco Ambrosetti, tromba; Nathan Davis, sax tenore e soprano; Jimmy Woode, basso; e ben quattro batteristi svizzeri, Charly Antolini, Daniel Humair, Pierre Favre e Mani Neumeier; dall'altra i musicisti del carnevale basilese, Alfred Sacher coi suoi tamburini e Georges Mathys col gruppo di pifferi.
Col microsolco From Sticksland with love / drums and folklore l'etichetta SABA mandò un messaggio musicale dalla Svizzera, ritenuta né più né meno il paese dei batteristi per eccellenza; si era finalmente realizzato il progetto lungamente accarezzato di riunire tamburini basilesi e solisti svizzeri della batteria jazz.
La particolarità dell'evento è dimostrata dal fatto che l'edizione della SABA si trova in catalogo nella serie Jazz meets the World accanto ad altri incontri fra jazz e folklore di disparate aree del mondo, alcuni animati da quel musicista curioso ed eclettico che è George Gruntz.
Ad anni di distanza da quel concerto significativo per la musica svizzera, possiamo gustare la versione discografica e una pregevole documentazione, puntuale nei suoi dati tecnici e ricca per le note firmate dal compianto produttore, critico e storico tedesco del jazz Joachim Ernst Berendt.
Nel suo testo appassionato, Berendt parte dal momento dell'esplosione del carnevale renano, che, dal 1835, alle 4 del lunedì successivo alle Ceneri, rompe l'oscurità e il silenzio della notte col rituale Morgenstraich, cioè quando le luminarie, i pifferi e i tamburi rinnovano l'annuale tributo a una tradizione che proprio in questa città trova i suoi più assidui e fedeli custodi. Parecchi batteristi jazz - Berendt cita per tutti lo spettacolare Gene Krupa - hanno subìto il fascino dell'unisono perfetto, dell'incredibile varietà di figure che centinaia di tamburini affiliati alle diverse associazioni (le Cliquen) esibiscono durante gli spazi loro riservati lungo i tre giorni e le tre notti carnascialeschi.
Dall'odierna funzione civile del tamburo le note di copertina risalgono all'uso guerresco d'uno strumento che rimane indissolubilmente legato alle vicende dei Confederati nei secoli della loro potenza militare, quando molti svizzeri alimentarono tanto i contingenti "cantonali" quanto il servizio mercenario in eserciti stranieri, quando cioè le particolari figure del tamburo segnavano la marcia, la cerimonia del giuramento e le azioni belliche.
Il critico tedesco torna poi sull'idea di fondo che portò al concerto del 1967 e alla produzione discografica: egli stabilisce un'analogia fra il tamburo basilese, ormai lontano dalle connotazioni militari del passato, e la batteria jazz, sostenendo che offrono, nel mondo occidentale, le forme più elaborate e coerenti di linguaggio del tamburo.
Il tamburo nella tradizione popolare
Aggiungiamo all'accenno alla tradizione svizzera dei pifferi e dei tamburi nella sua manifestazione più conosciuta, quella dei gruppi legati al carnevale basilese, il richiamo al lavoro svolto presso la Fonoteca nazionale svizzera dal settore "folk, musica etnica, parlato", responsabile Silvia Delorenzi-Schenkel.
Immagine tamburo di Basilea
L'istituto mette a disposizione sia materiale sonoro sia pubblicazioni sulla tradizione musicale popolare. Fra le opere presenti nella biblioteca si può consultare Mit Trommel und mit Pfeife di Max Jufer e Rudolf Baumann, Verlag Merkur Druck AG, Langenthal, 1994. Mentre Rudolf Baumann presenta strumenti ed illustrazioni della collezione del Trummlehus, la casa del tamburo di Langenthal, lo storico Max Jufer schizza un percorso del tamburo e del piffero dal Medioevo fino alla nostra epoca. Evocati nella pagina iniziale i rulli del tamburo che, il primo settembre del 1939, annunciarono la mobilitazione generale in Svizzera, egli tratteggia via via la presenza dei due strumenti nel periodo della grandezza militare fino a Marignano (1515), in quello del servizio mercenario fino alla caduta della Vecchia Confederazione (1798), negli anni dalla Repubblica Elvetica fino alla Costituzione federale del 1874, per gettare poi uno sguardo sull'evoluzione a partire dall'ordinanza militare del 1875.
Sono i decenni nei quali la tromba sostituì il piffero, e nei quali la forma e la fattura del tamburo subirono cinque modificazioni fra il 1884 e il 1982. Diminuito il loro impiego nell'esercito, piffero e tamburo trovarono sempre più ampia diffusione nella società civile con la creazione di associazioni e delle rispettive scuole, nonché grazie alla presenza nei più svariati corpi musicali.
Si pensi al ruolo dei tamburi in occasione d'eventi e cerimonie storico-patriottici o d'altra natura. Max Jufer riporta anche le fonti della sua apprezzata ricerca e una bibliografia di opere svizzere e straniere che superano il ristretto campo del tamburo. Egli cita, in effetti, alcuni autori che trattano degli strumenti a percussione, uno che si occupa della batteria, un altro addirittura di jazz.
Ora, avviato il nostro lavoro rievocando lo storico concerto del 22 giugno 1967 allo Stadttheater di Basilea, chiudiamo questa finestra e apriamo quella della batteria.
Parigi, 1913-1926
Il musicologo Marcello Sorce Keller ricorda, nel testo Rumore, musica e strumenti a percussione nella musica occidentale, apparso nell'opuscolo 2002-2003 del ciclo "Novecento passato e presente", che
".quando il Cristianesimo, tra il II e il IV secolo cominciò a proibire l'uso liturgico degli strumenti musicali, tra quelli censurati c'erano in primo luogo quelli a percussione che più di altri ricordavano i riti dionisiaci del paganesimo. La loro sostanziale esclusione (o almeno emarginazione) dalla musica seria dell'Occidente, che cominciò allora, ebbe fine veramente solo nel XX secolo".
In epoca molto più vicina a noi, tale censura venne ancora dal razionalismo e dall'illuminismo del Sei e Settecento, che indussero fino ad Ottocento inoltrato un apporto della percussione limitato agli strumenti in accordo con l'armatura tonale.
Fu l'estetica romantica a rivalutare l'irrazionale, tanto da contribuire - è sempre Marcello Sorce-Keller che scrive -
".a dare agli strumenti a percussione un'importanza che nella musica occidentale non avevano davvero mai avuto.
Grandi personaggi nella storia musicale del Novecento hanno reso visibile questa svolta".
In effetti, giungono dal campo della musica colta composizioni che richiedono un forte apparato percussivo. Rimane emblematico il trauma patito il 29 maggio 1913 da chi assistette, al Théâtre des Champs-Elysées, alla prima del balletto "Le Sacre du printemps". La sconvolgente opera di Igor Stravinski assegna sì energiche sottolineature ritmiche a grancassa, timpani e tamburi, ma imprime valenze percussive all'orchestra stessa.
Nel 1926 apparve a Parigi Le Jazz di André Cœuroy e André Schaeffner, pubblicato dalle Editions Claude Aveline nella collana "La Musique moderne", diretta da Cœuroy.
Gli autori avevano asssistito, dal loro osservatorio privilegiato, a una straordinaria serie di eventi musicali racchiusi nell'arco di pochi anni, arco che pur comprendeva la tragica Grande guerra. La loro percezione di testimoni diretti li porta addirittura ad assegnare a Le Sacre stravinskiano un ruolo centrale.
Prima di tutto, essi non esitano a risalire dai "frammenti più selvaggi" del lavoro, quando ". i vomiti indescrivibili dei corni s'intrecciano con una percussione e con dissonanze esacerbate" (p.98), a descrizioni di musiche africane tratte dalla cosiddetta "letteratura coloniale". In questo caso dal racconto Au cœur de l'Afrique(1869-1871) del naturalista ed esploratore tedesco Georg August Schweinfurth, il quale ebbe modo di assistere alle "orge sonore" dei Bongo, un gruppo etnico del Sudan sud-occidentale.
Va d'altronde rilevato che gli autori consacrarono buona parte del volume a resoconti di viaggiatori occidentali in Africa e nelle Americhe, e questo col chiaro intento di ravvisarvi descrizioni di strumenti, d'uso della voce, testimonianze su manifestazioni sonore raccolte lungo ipotetici itinerari del jazz, su fino alla ricerca delle sue origini.
Essi collocano poi Stravinski nel polo della musica colta europea, accostandolo a Debussy, al Gruppo dei sei, a Ravel, a Hindemith, a quanti cioè composero opere che potevano suonare ad un ascoltatore americano come "echi della musica nera".
E infine giungono ad affermare: "Può darsi che in Europa, senza l'arrivo del Sacre, il jazz non avrebbe avuto probabilità alcuna d'essere compreso". E sottolineano "lo spiegamento fino ad allora inusitato della batteria, lo scatenamento degli ottoni, la dura insistenza dei ritmi e i bruschi rinforzando dei tutti." (p.98).
Ritroviamo Stravinski durante il soggiorno romando, quando, il 29 settembre 1918, a Losanna, ci fu la prima rappresentazione dell'opera "L'histoire du soldat", su libretto d'un amico, lo scrittore vodese Charles-Ferdinand Ramuz, ispiratosi alle Fiabe russe di Afanasiev.
La partitura prevedeva un'orchestra di quattro fiati, due archi ed una batteria.
Il richiamo al lavoro del compositore russo permetteva a Cœuroy e Schaeffner di confrontare un organico così esiguo con quello della Black Rewiew, vale a dire della Revue Nègre. Lo spettacolo, aggiungiamo noi, venne presentato al Music-hall des Champs-Elysées nel 1925, e segnò l'avvio della carriera europea d'una diciannovenne cantante e ballerina di Saint-Louis, Joséphine Baker, poi osannata quale diva del musical col soprannome di "Venere nera".
Quanto al jazz, esso sarebbe stato importato in Francia, in forma embrionale, al Casino di Parigi, nel 1918, da Harry Pilcer e Gaby Deslys, cantante e stella del music-hall. Testimone molto interessato, Jean Cocteau, davanti a questa apparizione, osservava che "si vede danzare 'su questo uragano di ritmi e di tamburo una sorta di catastrofe ammansita'"(p.99).
Sulla presenza della batteria -un insieme di più strumenti assegnati a mani e piedi d'un solo musicista- troviamo due passaggi su una trasformazione avvenuta verosimilmente nel giro di poco tempo:
" In Europa, all'inizio, in ragione della sua ascendenza negro-ritmica, il ruolo della batteria nell'orchestra di jazz fu il più importante" (p.102).
Già alla pagina seguente si delinea una nuova tendenza estetica:
"A poco a poco, la batteria, dapprima potentissima, è stata relegata in secondo piano. L'elemento melodico ha preso il sopravvento e non è più sostenuto che da indicazioni ritmiche chiare e sobrie, dove la batteria, appena segnata, serve piuttosto al colore che al ritmo" (p.103).
Il pendolo si muove fra l'apollineo e il dionisiaco, fra elegante ed orgiastico e, tutto sommato, fra norma e trasgressione. Nella storia del jazz, come in quella d'altre forme artistiche, si presenta ciclicamente il problema della rispettabilità, dell'omologazione.
Dai ritrovi pubblici o dalle sale da ballo, il jazz si era già trasferito nelle sale da spettacolo e da concerto.
Pensiamo all'orchestra di Paul Whiteman, definita dai nostri due autori come quella più completa negli anni in cui uscì il loro libro. Essi ritennero importante riportarne l'organico, ben trentasei strumenti, tra cui timpani e batteria. Pochi archi, appena due o tre violini, al cospetto d'un poderoso armamentario di fiati, al contrario di quanto ci si aspetta da un'orchestra sinfonica: Whiteman entrò nella storia della musica a New York, dove presentò la Rapsodia in blu di George Gershwin (1924) e dove conobbe la consacrazione col concerto alla Carnegie Hall. Da allora lo chiamarono "il re del jazz" e la sua musica è nota ancor oggi come "jazz sinfonico".
L'accenno al concerto parigino dell'orchestra di Paul Whiteman al Théâtre des Champs-Elysées (2 luglio 1926) sembra quasi posticcio se è letto nell'economia d'un testo ormai avviato alla stampa. Ma a onore di Cœuroy e Schaeffner figura la loro saggia esortazione collocata dopo il richiamo allo straordinario successo e all'unicità di quell' insolita orchestra:
"Il y a là beaucoup à chercher et à trouver sans imiter" (p.135).
E'una delle ragioni per cui ci si può dilungare con interesse e piacere sulle centocinquanta pagine di questo volumetto di quasi ottant'anni fa, un esempio di metodo di lavoro apprezzabile per vastità della ricerca e ammirevole nella rinuncia ad assumere posizioni confezionate una volta per tutte.
La percussione nella musica d'intrattenimento e nel jazz; l'avvento della batteria
Alla voce "batteria" il Dictionnaire du jazz di Carles - Clergeat - Comolli la definisce "il solo strumento inventato dal jazz", luogo d'incontro delle percussioni africane e dei tamburi militari europei.
Le prime tracce della nuova musica afro-americana e del nuovo strumento in Svizzera sono tuttora oggetto di ricerca.
Otto Flückiger è autore d'una monografia su Bill Mantovani, luganese d'origine nato a Zurigo, uno dei pionieri svizzeri del jazz, rispettivamente della musica da ballo e d'intrattenimento influenzata dal jazz.
La carriera di Mantovani sembra esser cominciata all'Hotel de la Paix di Lugano-Paradiso e a Caprino, dove suonò dall'aprile all'ottobre del 1926. Una foto scattata nel parco dell'albergo lo mostra col violoncello, il trombone e la batteria col nome del trio, The Caprino Band, tra i due colleghi Jeff Graf, tromba e violino, e Jimmy Armbruster, il pianista, che è ritratto con la fisarmonica. Di tutta la fortunata carriera del musicista, trascorsa in patria e all'estero anche con formazioni fino a sette musicisti e durata fino al 1943, non esiste purtroppo nessuna nota registrata. D'un personaggio così interessante rimangono tuttavia parecchie immagini e i racconti suoi e di qualche amico d'avventura raccolti dal ricercatore nell'opuscolo pubblicato nel 1990 da "Schweizer Jazz Monografien - Pro Jazz Schweiz".
Esistono invece dischi registrati da un'orchestra nata a Basilea nel 1924. Con la loro Lanigiro-story, Armin Büttner e Otto Flückiger risalgono ai primordi d'una versione svizzera del jazz o d'una nostra musica d'intrattenimento poi denominata "jazz".
Nel primo volume, apparso nel sito Jazzdocumentation, essi seguono i passi della Lanigiro dalla nascita al 1939, riportando testimonianze dei musicisti e molte immagini, tra cui fotografie di Roger Beuret e della sua batteria dei primissimi anni.
Beuret racconta che agli inizi non aveva nemmeno una batteria e che dovette far capo a soluzioni improvvisate. Ecco un passaggio gustoso:
"Il mio tamburo era uno sgabello! Gli aggiunsi un tamburello e come cassa presi il secchio del carbone. Fissai una corda e, tirandola, il coperchio cadeva creando l'effetto zzt-zzt-zzt-zzt".
Le batterie raffigurate in quelle fotografie contavano ancora pochi elementi. Il criterio della quantità contribuisce ad individuare una storia dello strumento centrata sulla sua composizione.
Ma proviamo ora ad immaginare il fascino che dovettero esercitare sul pubblico le orchestre da ballo e i primi batteristi, i quali venivano ad occupare spazi impensati, marcando col rumore il flusso ritmato della musica.
Un fenomeno è rilevabile già negli anni Venti a Berna ("Alice Jazzband") come nel cantone Ticino (p.es. "Jazz Band Milo"): vi allude Aldo Sandmeier a proposito del Ticino nel numero 48 di Bloc notes (2003):
"Parecchie orchestre adottarono nella loro denominazione i termini "jazz" o "jazzband". Ci si può chiedere se il jazz nella definizione canonica avesse veramente preso piede nel nostro cantone, compresa dunque la connaturata pratica dell'improvvisazione. E' un interrogativo che vedremo permanere nei decenni successivi con l'incertezza del significato. Una spiegazione potrebbe venire dalla scelta d'un nuovo termine indistinto e complessivo soprattutto per le movenze ritmiche portate da nuovi passi di danza e quindi da motivi come fox-trot, one-step, rumba in provenienza dalle varie aree delle Americhe. Questi ritmi allargarono il repertorio delle orchestre oltre quelli ormai codificati del valzer, della mazurca e della polca".
Ma un uso particolare delle parole "jazz" e "jazzband" dimostra l'accentuata centralità della batteria ancora nei primi anni Trenta:
"Veniamo a "jazzband", che è usato propriamente nell'accezione di "orchestra di jazz". Ebbene, alcune anziane signore che ricordano gli anni giovanili col fascino della musica e delle danze sostengono che la definizione si sarebbe limitata ad uno degli strumenti dell'orchestra: sarebbe cioè valsa né più né meno come sinonimo di "batteria".
Nessuna meraviglia se gli slittamenti di significato riguardano anche la lingua tedesca: in due inserzioni della "Schweizer Musiker Revue" del febbraio 1932 riportate da Christian Steulet nel suo "Réception du Jazz en Suisse, 1920-1960, Développement industriel d'une culture musicale populaire", Mémoire de licence présenté à la Faculté des Lettres de l'Université de Fribourg, 1987, p. 100, due batterie vengono addirittura offerte l'una come "Jazzband" e l'altra come "Jazz".
Decenni più tardi su presentò il fenomeno della batteria adottata dalle formazioni bandistiche. Indubbiamente il quadro svizzero è molto differenziato e la penetrazione dello strumento in filarmoniche o fanfare od orchestre di fiati avvenne su un arco di tempo piuttosto prolungato. Cominciamo, per ora, dal caso ticinese, attingendo ancora al numero 48 di Bloc notes, quando si parla dell'avvento delle cosiddette "band":
"The Lugano Modern Band tenne il primo concerto pubblico in Piazza Cioccaro, a Lugano, il 22 giugno 1967 sotto la direzione del maestro Mirko Arazim, trombonista dell'Orchestra della RTSI. Nel programma della serata figuravano marce, polche e valzer, ma diversi titoli rimandavano al dixieland; l'esempio più significativo fu il famoso valzer di Jvanovici Le onde del Danubio, che diventò Donau-Walzer-Dixie. L'organico ricalcava quello della banda, ma un'altra novità fu la comparsa d'una batteria. Il maestro Arazim aveva aperto una via e quando lasciò la direzione, gli succedette Angelo Parini, batterista della Radiosa, che dopo il battesimo del 13 maggio 1968 in Piazza della Riforma diresse la Lugano Modern Band fino al concerto del 5 settembre 1971 al Castel Grande di Bellinzona. Per più di tre anni egli aveva scritto gli arrangiamenti per una "band" che arrivò a comprendere 33 esecutori, dei quali 21 della Civica filarmonica di Lugano. La massiccia adesione di membri d'una banda così gloriosa sapeva allora di trasgressione, ma la ricerca d'un tale diversivo era un segnale della crisi d'identità del movimento bandistico ticinese di cui scrive Fernando De Carli".
E sfogliamo allora "Le bande musicali della Svizzera italiana" di Giuseppe Milani, pubblicato nel 1981 dalle Arti Grafiche Bernasconi S.A. di Agno, per andare al testo di Fernando De Carli dal titolo "La banda nell'ambito della realtà artistica e sociale". Scrivendo dell'insediamento bandistico nella Svizzera italiana e dell'evoluzione del repertorio, l'autore accenna al "passaggio dall'esecuzione di musiche operistiche, sinfoniche, in genere italianeggianti, all'esecuzione di musiche jazzistiche, esotiche, in genere americaneggianti".
In particolare, prende esempio dall'aria d'innovazioni spirata nel 1978 sul Convegno bandistico cantonale di Lugano, quando nel programma si presentano titoli chiaramente ispirati al jazz, alla musica leggera, all'esotismo; e quindi annota (p.41):
"Sull'onda degli interessi provocati dalla musica afro-americana d'oltre Oceano, specialmente pensando alle musiche di tipo New Orleans e Dixieland, alle celebri Big Bands (Glenn Miller e Count Basie per non fare che due nomi) e allo Swing in generale, il jazz ha portato sicuramente una ventata di novità nel repertorio bandistico. Il particolare privilegio che concede all'elemento ritmico ha condotto quindi all'introduzione nell'organico bandistico della batteria tipo orchestra jazz appunto: una piccola rivoluzione che non ha mancato di scandalizzare i tradizionalisti.
La batteria, attualmente è entrata di diritto in quasi tutte le bande, in quanto - a parte la sua indispensabile presenza per l'esecuzione di brani jazzistici - si è rivelata molto più agile che non la tradizionale percussione della banda e quindi si adatta perfettamente all'accompagnamento di vari tipi di musica".
Le fanfare
La Civica filarmonica di Lugano - 175 anni d'esistenza nel 2005 - conobbe questa "piccola rivoluzione" nel 1963 grazie all'insistenza d'un entusiasta diciassettenne.
Emilio Brilli (*1946), ora residente nella Svizzera romanda, racconta la sua esperienza vissuta fra tradizione ed innovazione.
A quindici anni suona infatti timpani e tamburo nella Musica cittadina di Chiasso, diretta da Adolfo Di Zenzo. Ma nel 1963, entrato nella Civica filarmonica di Lugano, convince il Maestro Umberto Montanaro ad introdurvi la batteria: la consacrazione del nuovo strumento nel poderoso corpo bandistico luganese avviene al Padiglione Conza in occasione del concerto di gala del dicembre 1966. L'evento è annunciato dal "Corriere del Ticino" con un articolo intitolato "Per la prima volta una batteria jazz nell'organico della Civica filarmonica".
Attratto dal nuovo, il batterista Emilio Brilli non dimentica però la tradizione, tanto che proprio nel 1966 è alla testa del gruppo di sei tamburi creato all'interno della Civica, gruppo nel quale si trovano due ragazze.
La sua attività bandistica dura oltre vent'anni. Ma lo si trova pure tamburino nella fanfara militare e batterista nella Lugano modern band. Tutto ciò non gli impedisce di suonare musica da ballo in orchestrine locali né di rivolgere la sua attenzione ai maestri della batteria jazz: a tale proposito cita Gene Krupa, Buddy Rich, Shelly Manne, mentre ricorda ancora ammirato i concerti tenuti a Lugano da due solisti così diversi come Louie Bellson e Billy Cobham.
Autodidatta, egli precisa d'aver applicato la tecnica del tamburo alla batteria e d'aver poi arricchito la partitura sommaria riservata alla batteria con momenti d'improvvisazione, divertendosi swingando, facendo però in tal modo arricciare il naso a colleghi della Civica per nulla entusiasti delle novità afro-americane.
Sono passati quarant'anni da quei primi passi e la batteria non assolve ormai più la funzione ritmico-percussiva in un corpo musicale ancora legato al repertorio e ai colori tradizionali. Oggigiorno la filarmonica offre soluzioni armoniche e timbriche parecchio elaborate; per di più gli esiti corrispondono all'alto livello di preparazione raggiunto dagli esecutori in quella vera e propria scuola popolare di musica che è la banda, cosicché la batteria sembra agire in formazioni che richiamano le big band, le grandi orchestre d'intrattenimento e di jazz.
Un esempio significativo di questa evoluzione è il CD prodotto nel 2004 dalla Filarmonica di Canobbio diretta da Marco Piazzini.
Testimonianze del nuovo che avanza toccando il movimento bandistico nazionale emergono dal volume "125 Jahre Eidgenössischer Musikverband - Unsere Blasmusik in Geschichte und Gegenwart 1862 - 1987", che riserva spazio alla musica militare.
Togliamo un passaggio dall'articolo di Albert Benz intitolato "Musica militare e musica per orchestre di fiati":
Durante la seconda guerra mondiale le fanfare di battaglione si dotarono di alcuni clarinetti, in metallo e non in legno, Da parte sua il sergente maggiore [Gianbattista] Mantegazzi creò un complesso sinfonico militare, precursore dell'attuale Fanfara dell'armata svizzera, complesso sciolto alla fine della mobilitazione. La tattica del ridotto nazionale ebbe come corollario la nozione di difesa morale: tra il 1933 e il 1945 ci s' impegnò fortemente nei campi culturale e spirituale.
La musica militare degli artefici della vittoria - specialmente quella degli Americani - modificò la concezione di questo tipo di musica. Nel 1952, quando cominciò l'era delle fanfare di reggimento (lasciando tuttavia sopravvivere alcune fanfare di battaglione), ci s' imbatté nel contempo in un periodo d'incertezza sul loro stile e repertorio. Taluni ufficiali vollero attenersi rigorosamente agli imperativi del servizio, altri permisero musiche nuove, spesso influenzate dal jazz. Oltretutto si passò alle orchestre di fiati e alla creazione di scuole per batteristi. Il modello americano s'impose per il gusto delle evoluzioni e delle parate. Le reazioni andarono dall'entusiasmo al dileggio. Il regolamento del 1983 portò un po' di chiarezza nella musica militare, definendone nettamente gli obiettivi.
Dal 1961 esiste anche la Fanfara dell'armata svizzera, orchestra di fiati destinata a compiti speciali.
Opera di più coautori, il volume "Albert Benz, ein Leben für die Blasmusik", uscito nel 1990 a Zurigo da Atlantis Musikbuch, è un omaggio alla memoria del maestro lucernese (1927-1988) autore delle righe appena lette, il quale, oltre alla musica cittadina di Lucerna, diresse la Fanfara dell'armata svizzera (Armeespiel), un successore, dunque, del suo fondatore, lo zurighese Hans Honegger (1913-1988).
Grazie all'attività dei due maestri, la batteria è ormai nell'organico delle formazioni militari.
Il regolamento dell''83 assegna due batterie e sette tamburi alle fanfare di reggimento, una batteria e due tamburi alle fanfare di battaglione, mentre l'imponente Armeespiel - 85 strumentisti scelti, fra cui diversi professionisti - accoglie dieci strumenti a percussione e una batteria completa.
Con la riforma dell'esercito 95, la Swiss Army Band distribuisce le sue forze in quattro orchestre d'élite che sono l'Orchestra sinfonica di fiati, l'Orchestra di parata (Repräsentationsorchester), la Brass Band e la Swiss Army Big Band, 20 giovani talenti del jazz svizzero diretti dal popolare leader e polistrumentista Pepe Lienhard.
Oltre ai tamburini presenti nella formazione d'evoluzione e parata, si organizza anche uno spettacolare Swiss Army Percussion Ensemble, che si esibisce ben oltre il repertorio classico esplorando campi ritmici latino-americani, del pop e del rock.
Le Big Band
Abbiamo accennato al rinnovamento che s'ispirò alle orchestre militari degli Alleati durante la Seconda guerra mondiale e che ha portato all'americanizzazione del repertorio delle fanfare militari in Svizzera.
Ora proponiamo addirittura un ritorno alle origini del jazz, allorché sul fertile terreno sociale di New Orleans si erano incontrate le memorie musicali europee e quelle africane.
Già si è detto della compresenza d'elementi africani (le percussioni) ed europei (i tamburi militari) nella batteria, l'unica invenzione del jazz dal punto di vista della strumentazione.
Seguiamo ora il discorso ad ampio raggio che il musicista, musicologo e pubblicista francese André Hodeir (*1921) fa nel suo libro "Hommes et problèmes du jazz", ed. Flammarion, uscito nel 1954, che apparve nel 1958 nell'edizione italiana "Uomini e problemi del jazz", curata da Longanesi.
Il terzo capitolo s'intitola in modo suggestivo: "Blues e marce militari". Parlando delle "balie del jazz" Hodeir annota:
"Confrontando la musica negroamericana dei più antichi dischi di stile New Orleans con i vari tipi di musica africana, si nota subito che le differenze sono molto più numerose delle analogie. A che attribuire questi cambiamenti, di forma se non di sostanza? La musica negro americana, madre del jazz, nasce in seguito a una rottura della tradizione musicale africana (conseguenza del brusco sbalzo d'ambiente subito dagli schiavi deportati) e alla sua fusione con nuovi elementi d'origine anglosassone o francese:
con gli inni religiosi, cioè con le canzoni, e, in un secondo tempo, con le danze popolari e con le marce militari. Il jazz deve a questi repertori alcuni dei suoi caratteri principali: il sistema tonale, la battuta a quattro movimenti, la quadratura, la forma, un dato tipo di sincope, eccetera."
E continua con un paragone che sembra avvalorare la sua tesi:
"Altri negri di identica origine, ma sottoposti a tutt'altro regime, ossia al folclore spagnolo, hanno creato un genere d'arte molto diversa dal jazz: la musica delle Antille, i cui sistemi ritmici e le cui melodie ricordano solo alla lontana quelli determinatisi nel sud degli Stati Uniti" (p.54).
Più avanti l'autore francese accenna all'aspetto specifico della strumentazione:
"Ai rozzi strumenti dei propri antenati, il negro americano ha preferito gli strumenti perfezionati dei bianchi. Certo egli non li adopera alla maniera europea.Ma questa adozione di strumenti ha portato, di conseguenza, a quella di un meccanismo musicale di cui non si è sufficientemente sottolineata l'importanza rispetto alla fase di gestazione. Sembra proprio che in realtà il meglio del repertorio delle prime orchestre negre, quelle che sfilavano per le vie di New Orleans a passo di parata o che le percorrevano a bordo di carrozzoni, non fosse costituito da blues bensì da marce militari, da quadriglie e da polke. Questi brani (e ce ne possiamo render conto ascoltando registrazioni di pionieri come quelle dell'Original Zenith Brass Band) erano solo un po' deformati nel ritmo. E le esecuzioni rammentavano più da vicino i concerti svolti sulla piazza del paese dalle fanfare francesi (ineluttabili stecche comprese) anziché suggerire, con le loro sincopi, la tradizionale immagine degli spirituals" (p.57).
André Hodeir ricorda che le blue notes "hanno dato al jazz il meglio della sua originalità melodica" e che "l'uso della battuta a quattro movimenti ha contribuito a far fiorire quella cosa nuova che è stata poi chiamata swing" (p.58) prima di chiedersi "quale bisogno spingeva i negri a organizzar fanfare per eseguire, apportandovi solo qualche diversivo superficiale, il repertorio militare o da danza dei bianchi" (p.59).
A questi toni da grande affresco storico accostiamo la visione ravvicinata con cui Bob Thomas (1994, www.redhotjazz.com) considera un antefatto del fenomeno del Big Band Jazz che egli fa risalire al 1898. In quell'anno, terminata la guerra degli Stati Uniti contro la Spagna, giunsero al porto di New Orleans, con le truppe vittoriose, numerose fanfare militari che inondarono la città del Delta di strumenti musicali usati. Afroamericani interessati alla musica ne comperarono a centinaia e subito si formarono delle orchestre di autodidatti che si diedero a suonare i loro motivi con tecniche strumentali tutte loro.
Con questo approccio al tema della batteria nella big band additiamo un cammino che ci porta verso l'era dello swing. Per un tratto facciamoci accompagnare da Joachim Ernst Berendt quando comincia il capitolo "Le big bands del jazz" del volume "il nuovo libro del jazz - da New Orleans al Jazz rock", ed. Vallardi, 1986:
"I confini sono flessibili: ciò che un momento prima era ancora musica New Orleans, un momento dopo era già jazz di big band e annunciava l'era dello Swing. In "The chant" dei Red Hot Peppers di Jelly Roll Morton del 1926, benché si tratti ancora del purissimo New Orleans jazz, vi sono già abbozzati i suoni di big band, e quando nel 1929, King Oliver cedette la sua band a Luis Russell, l'orchestra, quasi immutata, che fino a un momento prima era una New Orleans Band, ora era diventata una "big band".
L'orchestra di Fletcher Henderson è il miglior esempio di come i due campi impercettibilmente si confondano. Con questa orchestra comincia la vera storia della big band della musica jazz. Dall'inizio degli anni Venti fino al 1938 Fletcher Henderson diresse grandi orchestre ed esercitò un'influenza che oltre a lui ha esercitato solo Duke Ellington. [...] Quando Henderson cominciò suonava una musica che era poco diversa dalla musica di New Orleans di quel tempo. Tra il 1925 e il 1928 fece incisioni che intitolò significativamente "Dixie Stompers".
Lentamente e impercettibilmente si crearono "sezioni" che riunivano gruppi sonori di strumenti analoghi; le sezioni - "sections" - divennero una caratteristica della big band nei successivi quarant'anni" (p.388).
Nella big band le sezioni dell'orchestra, le trombe, i tromboni, i sassofoni, richiamano Il front-line tradizionale delle tre voci clarinetto, cornetta/tromba e trombone; usciti di scena il banjo e il basso tuba, nasce la sezione ritmica con pianoforte, basso e batteria, cui si aggiungono spesso la chitarra e le percussioni.
Una grande orchestra è quindi denominata big band con una definizione che trasporta prima di tutto un'indicazione di carattere quantitativo: infatti una big band del periodo classico, grosso modo fra il '35 e la fine della guerra, comprendeva dai 16 ai 19 musicisti. Qui si parla cioè dell'effettivo dell'orchestra. Ma questa denotazione non è sufficiente. Abbiamo già ricordato che l'orchestra di Paul Whiteman degli anni 1925-26 comprendeva 23 esecutori che disponevano di 36 strumenti; eppure non si trattava d'una big band.
Bisogna accennare anche all'aspetto della scrittura, prestare attenzione all'arrangia- mento, cioè all'organizzazione dei suoni, andando oltre la melodia (andamento orizzontale, diacronico, lungo l'asse del tempo) per cogliere l'armonia (collocazione verticale, sincronica sull'asse della contemporaneità/dello spazio) nonché certe particolarità timbriche ottenute al di là delle scelte stilistiche dei singoli musicisti:
pensiamo all'accostamento di certi strumenti, all'inserimento di determinati strumenti dai registri bassi o alti (tuba, sax baritono o basso, inversamente violino (raro!), flauto oppure ottavino) o all'uso di accessori che modificano il suono come mute o sordine.
Mancherebbe però un elemento fondamentale del jazz se una formazione di parecchi musicisti suonasse orchestrazioni formalmente ineccepibili non curando il procedere ritmico, tralasciando ciò che si chiama swing.
Solo a queste condizioni, con questo supplemento di significato, la denonimazione "big band" assume un valore connotativo, e vale ormai come un'antonomasia: big band equivale a dire grande orchestra di jazz.
Le percussioni
Introduzione
Gli strumenti a percussione che ascoltiamo nel jazz (e in generi contigui quali rock, pop o produzioni prossime alla musica colta occidentale) costituiscono un insieme vastissimo ed eterogeneo, tanto da porre qualche ostacolo a chi cerca di districarvisi affrontando la delimitazione di campi logico-semantici e studiando così la relativa classificazione.
Ricordiamo come si riconosca in Michael Praetorius (1571-1621) un pioniere dell’organologia, cioè dello studio della storia e delle caratteristiche degli strumenti musicali. Il compositore e teorico tedesco dedicò la seconda delle tre parti di Syntagma musicum (1618) alle descrizioni accompagnate da tavole illustrate.
Passarono ben tre secoli da quel documento limitato al Vecchio continente fino all’opera Sistematica degli strumenti musicali (1914) ove il musicologo tedesco Curt Sachs (1881-1959) e l’etnomusicologo austriaco Erich von Hornbostel (1877-1935) suddividono e raggruppano gli strumenti secondo il modo in cui viene prodotto il suono. Lo schema fondamentale della loro classificazione raccoglie gli oggetti in cinque categorie: aerofoni, idiofoni, membranofoni, cordofoni, meccanici ed elettrici (elettrofoni).
Oltre a quello basilare della modalità d’uso, ognuno viene poi ordinato secondo altri criteri distintivi che riguardano aspetti fisico-chimici, tecnologici o coordinate del paesaggio umano legate all’esecuzione. Alludiamo a tratti come:
- materiale/i utilizzato/i, forma ed ev. decorazioni, dimensioni, suono indeterminato o suono determinato, luogo d’origine/di provenienza, eventuali trasformazioni, distribuzione geografica, contesti od occasioni sociali d’uso e ad altri ancora.
Il pubblico di lingua italiana ha la fortuna di poter disporre di un’opera aggiornata che s’ispira al modello di Sachs e von Hornbostel vecchio ormai quasi d’un secolo, il volume Gli strumenti musicali di ogni epoca, di ogni paese, Fabbri Editori, 1996, versione dell’originale inglese Musical Instruments of the World. An Illustrated Encyclopedia, Diagram Group, tradotto dal compositore e musicologo italiano Giampiero Tintori, che nella breve nota da curatore ne loda la chiarezza e la precisione dei disegni e l’esemplare tono divulgativo.
Ora, dopo aver gettato un primo sguardo d’insieme, è tempo di stringere da vicino il campo scelto: così citiamo un’agile pubblicazione svizzera di Mario Colombo e Armin Walther, Schlaginstrumente in der Blasmusik (Stumenti a percussione nella musica a fiati), 1978, Karl Burri Berna. Vi troviamo un’ampia rassegna di percussioni ( si comincia dalla batteria!) impiegate non tanto e solo nelle grosse formazioni bandistiche, come indica il titolo del manualetto di 48 pagine, ma a ben vedere anche in altri tipi di orchestre più o meno numerose, anche in quelle ispirate al jazz..
Assodato che gran numero di strumenti accumulatisi nell’armamentario dei percussionisti e dei batteristi è attribuito dall’organologia al gruppo degli idiofoni e a quello dei membranofoni, ci si può ora muovere lungo il filone della musica improvvisata e sincopata afroamericana suggerendo un possibile itinerario che muove dall’enciclopedia per eccellenza del jazz, il Grove.
Colpisce la brevità della voce "percussion", che proviamo a leggere nel semplice inglese della scheda originale:
"In jazz, the term is used to refer to the equipment of the drummer (see drum set) and a number of additional instruments (see bongo, conga, cuìca, marimba,steel drum, tabla, timbales, vibraphone, and xylophone)."
Il testo, che rimanda a ciascuna delle nove voci del dizionario, distingue quindi, nell’intero campo percussivo, due sottoinsiemi,
- l’attrezzatura del batterista, il cosiddetto "drum set"o "drum kit" o ancora "trap set", quello di cui ci siamo occupati fino a questo momento nel lavoro sui batteristi svizzeri, e
- gli strumenti addizionali, aggiuntivi, con un elenco di esempi breve ma egualmente significativo.
Non insistiamo sul fatto che il Grove, come altre fonti, attribuisca alle percussioni anche l’insieme degli strumenti essenziali del batterista (il drum set), con la parte dei tamburi (membranofoni) e quella dei piatti (idiofoni). Al di là delle attribuzioni di campo, notiamo però che da un canto il batterista tende a farsi batterista-percussionista aggiungendo alla sua attrezzatura di base oggetti attinti all’enorme serbatoio delle (altre) percussioni, serbatoio che si fa sempre più ricco con le contaminazioni e i prestiti che si verificano nell’universo musicale. Una bella foto del Grove alle pagine sul drum set mostra Duke Ellington (Chicago, 1940) accanto al suo batterista Sonny Greer che è ai comandi d’un imponente apparato percussivo.
D’altro canto, nella pratica musicale è apparsa la figura del percussionista, che fa astrazione dalla batteria e si avvale di strumenti di questa o quest’altra area geografico-musicale.
Se esaminiamo gli "strumenti addizionali" enumerati dal Grove, si individuano
- i membranofoni: quelli provenienti dalle Americhe, cioè gli afro-cubani bongo e conga, suonati con le mani; i timbales, di provenienza latino-americana e suonati con sottili bacchette; la cuìca, un tamburo a frizione brasiliano che ci ricorda la caccavella o putipù del folclore napoletano, campano; e quello proveniente dall’Asia meridionale, la tabla, il doppio tamburo dell’India che accompagna solitamente il sitar;
- gli idiofoni: gli steel drum, caratteristici di Trinidad; lo xilofono e la marimba, che hanno come capostipite il balafon africano, che André Cœuroy e André Schaeffner esaminano nel terzo capitolo ("Du tambour au balafon") e nel settimo ("Du balafon au xylophone") della loro opera Le Jazz, uscita a Parigi nel 1926, che abbiamo già citato in questo lavoro. Il suono flebile del balafon si trova nell’orchestra di musicisti del Mali che accompagna la cantante statunitense Dee Dee Bridgewater nel Cd Red Earth, nel quale va alla riscoperta delle sue radici africane (2007).
In quanto al vibrafono, strumento elettrico dalla meccanica più complessa, è accertato negli Stati Uniti nel 1916 col primo significativo nome di “metal marimba”. Citiamo Franck Tortiller come il solista che giunge a usare xilofono, marimba e vibrafono nello stesso disco, come fa nel trio di Early Dawn (Altrisuoni 2004).
È con Isabelle Leymarie e il suo lemma "percussions" del Dictionnaire du jazz di Carles-Clergeat-Comolli che proponiamo di entrare nel corso della storia del jazz per individuare l’affluenza delle percussioni. L’autrice francese è nel suo campo preferito: pianista, etnomusicologa, storica del jazz e della musica afro-cubana e docente in parecchie università europee e americane (tra cui Yale), essa ha prodotto un documentario sul musicista cubano Machito e ha pubblicato nel 1993 il libro La Salsa et le latin jazz. Una volta osservato che la schiavitù privò le comunità nere degli Stati Uniti perfino dei loro strumenti a percussione, essa viene al dunque:
"L’histoire de la percussion dans le jazz est liée, à ses débuts du moins, à celle de la musique afro-cubaine. En effet, l’apparition, au sein d’un orchestre de jazz, du premier instrument de percussion autre que la batterie, à savoir la conga, venue de Cuba, coïncide avec l’essort du cubop, vers la fin des années 40. (Le cubop, mariage du bebop et de la musique afro-cubaine, deviendra par la suite latin jazz lorsque d’autres rythmes et d’autres percussions latino-américains viendront s’y adjoindre.) De tambour célébrant les danses de fertilité ou scandant les danses pugilistiques des Noirs bantous de Cuba (les "Congos", d’où le nom de "conga"), la conga devient instrument de carnaval pour passer, au cours des années 30, au registre de la musique populaire puis à celui du jazz."
È l’arrivo del percussionista cubano Luciano Chano Pozo (1947) nell’orchestra del trombettista Dizzy Gillespie a segnare l’ingresso delle percussioni nel jazz, in particolare nel bebop. Ingresso piuttosto controverso, a leggere la stringata aneddotica dell’autrice. Infatti certi musicisti afro-americani, avvezzi alla batteria, insorgono all’arrivo dei tamburi suonati a mani nude, che richiamano dolorosamente l’immagine di quell’ Africa per così dire "primitiva" presentata in modo caricaturale dalla cultura bianca e che essi cercano di rimuovere.
D’altro canto sorgono problemi di natura strettamente musicale, e ciò a causa della diversa scansione ritmica, della differente collocazione degli accenti. Ma anche il percussionista deve adattarsi allo schema ritmico più rigido del jazz; alla fin fine nasce la collaborazione testimoniata dal repertorio della big band di Gillespie nei temi di latin jazz come Tin Tin Deo, una composizione di Pozo, il quale diventa il capofila d’una schiera di congoisti giunti negli Stati Uniti non solo da Cuba.
Dopo la conga entrano nei gruppi jazz il bongo (con Armando Peraza o José Mangual) ma anche i timbales (con Tito Puente e altri); come annota l’autrice, le percussioni cubane invaderanno anche le musiche affini come la soul music, il rock e perfino il gospel.
Negli anni Sessanta, con la samba e la bossa-nova, entrano nel jazz musicisti brasiliani quali Airto Moreira, Nana Vasconcelos o Dom Um Romao coi loro strumenti, per esempio la cuìca, vettori del cosiddetto swing brasiliano, il balanço, sul quale fraseggiano solisti americani per i quali basta fare il nome di Stan Getz.
Nei decenni successivi, musicisti come John Coltrane o Don Ellis puntano lo sguardo verso i paesi arabi, verso l’Asia, dove scoprono musiche modali ma pure nuovi membranofoni africani, tibetani, balinesi o la tabla indiana, tanto che l’orizzonte si fa pressoché planetario. Inversamente arrivano in Occidente, dall’Africa come dall’Asia, percussionisti che trovano entusiastico ascolto non solo nel pubblico ma anche fra i colleghi musicisti.
Con l’enorme fortuna della cosiddetta fusion e col ritorno in auge del latin jazz, le percussioni diventano parte necessaria dell’orchestra: ciò porta
- alla specializzazione dei solisti di alcuni strumenti chiave (conga, bongo e qualche altro),
- al crescente uso d’innumerevoli oggetti di piccole dimensioni e
- alla promozione delle grosse percussioni - xilofono, marimba e vibrafono - a voci a pieno titolo.
Isabelle Leymarie chiude la serie dei decenni lungo i quali ha esposto la sua materia col richiamo al lavoro che Miles Davis, volendo risalire alla tradizione africana, ha svolto negli anni Ottanta con Mino Cinelu, percussionista francese originario della Martinica.
In un ultimo paragrafo scioglie un inno agli strumenti che lei chiama calorosi, ormai sostituiti da quelli elettronici forniti da una tecnologia senz’anima che offre certamente effetti e sonorità inauditi, ma mette la ritmica in mano a suonatori di sintetizzatori e a programmatori altamente specializzati.
Un’osservazione che si ricava dagli ascolti è quella sulla crescente consuetudine dei concerti e delle registrazioni che qualche percussionista ama sostenere da solo, col risultato che ne escono talvolta delle esecuzioni prossime alla musica detta per comodità colta occidentale: ciò finisce per riproporre il dualismo fra improvvisazione e composizione.
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